AUTISMO INFANTILE.
ATTUALI ORIENTAMENTI SUL TRATTAMENTO MULTIDISCIPLINARE.
NOSTRE ESPERIENZE.
MASSIMO BORGHESE* STEFANIA PORCARO** RAFFAELA VALENTINO** ANNALISA D’AJELLO** EMMA RADICE** TIZIANA GIAMMARINO*** VITTORIO CERASO**** ROBERTO SIMONETTI*****
*Foniatra
**Logopediste
***Psicomotricista
**** Neurofisiologo
***** Omeopata-omotossicologo
La presa in carico abilitativa-riabilitativa del soggetto autistico deve, a nostro parere, realizzarsi attraverso un momento diagnostico ed un intervento logopedico che considerino e comprendano almeno le seguenti premesse:
– l’autismo è una sindrome a genesi multifattoriale, decisamente di natura organica, per nulla collegabile ad ipotesi di tipo psicodinamico che, peraltro, hanno frenato e sviato anni di possibilità di seria e costruttiva ricerca scientifica;
– il deficit linguistico espressivo non è certamente l’unica, ma è sicuramente una delle più significative ed invalidanti componenti del quadro clinico, per cui non è pensabile porre in secondo ordine in un protocollo diagnostico-terapeutico, la considerazione di tale elemento;
– non è realizzabile un intervento abilitativo che si basi sulla mera esecuzione di un solo e semplice “metodo”, senza un significativo coinvolgimento di tutti gli operatori utili allo scopo, escludendo, nel contempo, figure e metodologie dannose o fuorvianti, nonché operatori che, al di là del gruppo scientifico-culturale di appartenenza, si dimostrino singolarmente incompetenti e non sufficientemente preparati allo svolgimento di un lavoro così specifico.
Partendo da queste ed altre premesse, stiamo lavorando, ormai da molti anni, sulla sindrome autistica con l’obiettivo di porci in un atteggiamento di costante aggiornamento relativo alle cause (se ne scoprono sempre di nuove) ed alle modalità di trattamento della patologia in questione, mantenendo come punto fermo di riferimento, le figure professionali del foniatra e della logopedista (anche, ma non solo, perché il nucleo iniziale del nostro gruppo di lavoro è formato da foniatra e logopedista), ed operando in grande sintonia con altre figure, quali lo psicomotricista, l’omeopata-omotossicologo, il neurofisiologo, i genitori dei bambini in carico, gli insegnanti della scuola.
Parlare di autismo infantile impone innanzitutto una chiarezza concettuale e terminologica, al fine di evitare il verificarsi di un frequente equivoco, consistente nell’uso spesso improprio di tale diagnosi per definire diversi soggetti affetti, sì, da turbe del linguaggio e del comportamento, e che autistici non sono; ma soprattutto al fine di evitare omissioni o ritardi di diagnosi; evenienza, questa, forse ancora più grave, perché responsabile di ritardate prese in carico terapeutiche.
Andiamo pertanto a vedere quali sono i criteri essenziali per formulare una corretta diagnosi di autimo in età infantile:
a) Esordio prima dei 30 mesi di età.
b) Carenza globale di reattività nei confronti di altre persone.
c) Deficit grossolani nello sviluppo del linguaggio.
d) Se la capacità di parlare è presente, vi sono modalità particolari di discorso, come ad esempio ecolalia immediata o tardiva, linguaggio metaforico, inversione di pronomi.
e) Reazioni bizzarre a vari aspetti dell’ambiente, come ad esempio resistenza ai cambiamenti, interesse particolare o inusuale attaccamento per oggetti prevalentemente inanimati, che vengono “superinvestiti” di affettività.
f) Assenza di deliri, allucinazioni, allentamento dei nessi associativi o di incoerenza, a differenza di quanto avviene nella schizofrenia.
In maniera sostanzialmente non difforme, l’Associazione Psichiatrica Americana segnala i seguenti sintomi come necessari e sufficienti per la diagnosi di autismo:
a) Palese deterioramento delle interazioni sociali: carenze di interesse per le altre persone; chiusura, indifferenza emotiva agli stimoli; evidente difficoltà a partecipare alla vita e ai giochi di gruppo; i bambini gravemente isolati dimostrano di ignorare completamente gli altri ed hanno difficoltà ad instaurare contatto visivo con le persone.
b) Grave deterioramento della comunicazione verbale e non verbale; il linguaggio è significativamente ritardato: il bambino può apparire muto o esprimersi solo in gergo. Se utilizza le parole usuali, il suo linguaggio è prevalentemente non comunicativo, la sintassi è distorta e si rileva ecolalia. La comunicazione non verbale è anche gravemente deteriorata.
c) Risposte bizzarre all’ambiente manifestate nel seguente modo: il bambino ripete in maniera rigida un limitato repertorio di condotte, manipola gli oggetti senza tenere in considerazione le proprietà fisiche e le funzioni usuali, e non li utilizza secondo uno schema di gioco.
d) Sviluppo di questi sintomi prima del trentesimo mese di età.
A livello epidemiologico ricordiamo che l’incidenza dell’autismo è stimata dal 2 al 10 / 10.000, a seconda dei criteri diagnostici usati. Più precisamente, in Europa la percentuale di incidenza risulta tra 2 e 4 individui su 10.000.
I maschi ne risultano colpiti 4 volte più frequentemente delle femmine, e non sembrano esserci differenze di incidenza tra le diverse popolazioni, razze e categorie sociali.
Premessa, dunque, la conoscenza dei criteri fondamentali per una corretta diagnosi di autismo, identifichiamo le principali linee guida del nostro protocollo diagnostico-terapeutico nei seguenti punti:
– Visita foniatrica di accettazione, allo scopo di definire un primo orientamento diagnostico ed una iniziale serie di caratteristiche del profilo comunicativo relativamente ai versanti percettivo, integrativo, espressivo e, in particolare, relazionale-comportamentale.
– Osservazione logopedica in 4-7 sedute, al fine di approfondire ulteriormente l’analisi del profilo comunicativo, prima della presa in carico più propriamente terapeutica.
– Osservazione psicomotoria, con intendimenti analoghi a quelli dell’osservazione logopedica.
– Indagini cliniche e strumentali: fisse (bioscreening); facoltative (potenziali cognitivi evento-correlati, TC o RMN dell’encefalo, analisi genetica).
– Presa in carico terapeutica logopedica.
– Presa in carico terapeutica psicomotoria.
– Dieta e/o terapia disintossicante di tipo omotossicologico.
– Controlli longitudinali foniatrici, strumentali, omotossicologici.
La visita foniatrica costituisce il momento iniziale di inquadramento medico con specifica competenza nell’ambito della fisiopatologia della comunicazione, al fine di formulare prima di tutto un’ipotesi diagnostica (confermabile subito, se l’evidenza clinica è tale da non lasciar dubbi sulla diagnosi iniziale, o nel corso delle successive sedute di osservazione), ma anche per tracciare un percorso diagnostico-terapeutico durante il quale, il foniatra farà da supervisore-osservatore, nonché da riferimento per le diverse figure professionali operanti nell’iter abilitativo del bambino autistico.
In occasione del primo inquadramento, il foniatra si pone il compito di delineare un iniziale profilo comunicativo del piccolo paziente, attraverso una disamina che è riassumibile nei seguenti punti:
– Anamnesi familiare (avente lo scopo, tra l’altro, di individuare l’esistenza in famiglia di eventuali altri casi, non solo di autismo, ma anche di disturbi della comunicazione di interesse pertinente ad un inquadramento diagnostico più ampio possibile).
– Anamnesi personale remota, basata soprattutto sull’attenta ricerca di quelle informazioni utili per l’identificazione di fattori in grado di determinare un danno organico encefalico (eventi tossici o traumatici in gravidanza, asfissia pre-, peri- o post- natale, manifestazioni convulsive, ritardato raggiungimento delle principali tappe dello sviluppo motorio nei primi mesi e anni di vita, intolleranze alimentari, malattie infettive, disturbi del metabolismo, sindromi genetiche…).
– Valutazione delle intenzioni comunicative (performativi).
– Valutazione della prestazionalità generale e, per quanto possibile nel corso della prima visita, dei singoli livelli:
a) sensopercettivo (non solo e non tanto come capacità “periferica” di udire, vedere, odorare, gustare…, ma soprattutto come “capacità di elaborare una percezione” a livello centrale);
b) practomotorio-espressivo (verbale e non verbale);
c) cognitivo-integrativo-decisionale;
d) emotivo-affettivo-relazionale-comportamentale, con particolare riferimento, in caso di ipotesi diagnostica di sindrome autistica, alle seguenti voci:
– mancanza di contatto oculare interlocutoriale
– scarsa o nulla tolleranza al contatto fisico interpersonale
– presenza di comportamenti autolesivi
– presenza di stereotipie (motorie, verbali) e di ossessioni
– alterato rapporto con i coetanei.
Tali valutazioni costituiscono anche l’oggetto delle prime sedute di logopedia e psicomotricità, alle quali attribuiamo una valenza non solo strettamente terapeutica, ma anche di osservazione, in questo caso come completamento di un’osservazione iniziata nella prima visita foniatrica e, naturalmente, non esauribile del tutto nel circoscritto arco di tempo di un unico incontro.
L’inquadramento diagnostico, per quanto ci riguarda, non si esaurisce con la prima visita ed il completamento dell’osservazione effettuata nelle prime sedute di terapia, ma si estende anche al ricorso ad altre indagini utili per ottenere la più possibile ampia acquisizione di dati relativi ad una diagnosi etiologica, nonchè per coadiuvare l’osservazione clinica nelle verifiche longitudinali (a due, quattro, sei mesi, e negli anni successivi) al fine non solo di confermare le ipotesi diagnostiche iniziali, ma anche di aggiornare i piani di trattamento, le valutazioni prognostiche (la cui importanza non ci stancheremo mai di sottolineare), e monitorare l’evoluzione della maturazione del bambino e delle sue abilità.
L’osservazione logopedica e l’osservazione psicomotoria hanno l’intento di completare il momento diagnostico, onde poter disporre di un dettagliato “identikit” iniziale del bambino con la compilazione dettagliata del suo profilo comunicativo, realizzata così da due figure professionali differenti ma complementari, e che saranno poi le protagoniste della vera e propria presa in carico terapeutica-abilitativa.
Il problema delle cosiddette “indagini strumentali” costituisce a nostro avviso una sorta di ingombrante arma a doppio taglio, forse “a taglio multiplo” (se ci è consentito il termine), in quanto siamo fortemente convinti che l’eventuale negatività dei reperti strumentali non autorizza affatto ad escludere l’esistenza di un danno organico in presenza di un bambino autistico. Le continue scoperte di sempre nuove e più numerose anomalie cerebrali (macro- o microscopiche) di difetti metabolici congeniti o acquisiti, di esiti di eventi infettivi, tossici, traumatici… in grado di ledere non solo il sistema nervoso, ma anche altri sistemi (con particolare riferimento a quelli digerente e immunitario) rinforzano le nostre convinzioni secondo le quali l’autismo rappresenta una malattia a base organica, avente una genesi multifattoriale, laddove la presenza di una causa identificata, non esclude peraltro la concomitanza di altri fattori etiologici.
Riteniamo non inutile ma certamente non indispensabile disporre di immagini dell’encefalo ottenute per mezzo di TC o RMN; questo perché siffatte indagini ragguaglierebbero solo sull’eventuale presenza di danni macroscopici, nei confronti dei quali peraltro non sono realizzabili interventi correttivi “diretti”.
Per un’analisi che definiremmo più “funzionale” delle attività cerebrali (comunque compromesse, indipendentemente da quanto ci è dato di “vedere”) del soggetto autistico, attualmente preferiamo ricorrere ai potenziali cognitivi evento-correlati (ERPs).
I potenziali evocati cognitivi costituiscono una metodica di indagine strumentale che si pone nei confronti dei potenziali evocati cerebrali più tradizionali (visivi, uditivi, somatosensoriali), come un’alternativa che esamina le capacità cognitive del soggetto in esame, come metodo di valutazione neuro-psico-fisiologica.
I potenziali cognitivi dipendono da processi endogeni, relativamente alla capacità di elaborazione cognitiva, o meglio, di decodificazione di input sensoriali (per esempio messaggi acustici) a livello della corteccia limbica.
Il prodotto di elaborazione corticale è il grafico che esprime l’onda P300, laddove il numero (300) ne quantifica la latenza media espressa in millisecondi, ossia il tempo di comparsa.
Questa, a differenza delle onde che la precedono (N1, P1, N2) non viene elicitata da stimoli esogeni (cioè stimoli esclusivamente acustici che colpiscono praticamente le circonvoluzioni trasversali di Enshel, cioè il pavimento della scissura di Silvio, l’area sensoriale uditiva primaria), ma dall’elaborazione del messaggio, dal suo contenuto informativo.
I parametri fondamentali della P300 sono:
– l’ampiezza,
– la morfologia,
– la latenza,
– la sua distribuzione spaziale, topografica, sulle varie aree dello scalpo.
L’ampiezza è strettamente correlata al livello di attenzione, concentrazione, motivazionalità, del paziente.
La latenza è strettamente correlata alla velocità del processo decisionale stesso, e quindi, nella sua dinamicità, è strettamente correlata alle capacità di apprendimento, di espressione verbale, di immaginazione, di memorizzazione…, e ne abbiamo un termine numerico. In occasione di studi condotti su migliaia di volontari “sani”, sono stati definiti per fasce di età da 1 a 90 anni, dei range di valori normali relativamente alla latenza e all’ampiezza. La P300 è risultata poi a sua volta scomponibile in due subcomponenti: la P3a e la P3b. La componente P3a traduce l’apertura, l’inizio del processo decisionale, quando il soggetto in esame non pone ancora un’attenzione selettiva allo stimolo target (“rare”). La componente P3b esprime la chiusura post-decisionale del processo cognitivo, nel corso del quale, il paziente pone un’attenzione selettiva allo stimolo target.
I generatori anatomici della P300 sono situati tutti al di sopra del tronco cerebrale.
I principali sono indovati:
– nel lobo temporale, a livello dell’ippocampo, dell’amigdala, del giro del cingolo;
– nella neocorteccia laterale del lobo parietale inferiore;
– nelle aree limbiche prefrontali;
– nel nucleo anteriore del talamo.
E’ stato appurato che tutte queste strutture, componenti nel loro insieme la cosiddetta “corteccia limbica”, e generanti la P300, sono collegate da una fitta rete di comunicazione ed interagiscono strettamente tra loro.
In base a ciò si può affermare che quando ci si trova di fronte ad una P300 ritardata, rallentata nei suoi valori di latenza, vi sono dei momenti lesionali che sconnettono questi generatori che nella loro convergenza elettrofisiologica producono il potenziale predetto.
Nei soggetti autistici, i grafici dei tracciati ottenuti dall’evocazione dei potenziali cognitivi, hanno presentato fino ad oggi un tipo di reperto pressocchè costante: una discreta apertura del processo decisionale, mai seguita da una vera e propria chiusura del processo cognitivo. Ciò a dimostrazione dell’esistenza di una decodificazione di un contenuto informativo di uno stimolo sicuramente entrato in un cervello limbico non anomalo per quanto riguarda i suoi costituienti, ma certamente funzionante in modo diverso…
Sempre negli autistici è stato inoltre possibile distinguere una sorta di due sottopopolazioni di soggetti, a seconda del diverso andamento delle componenti P3a e P3b della P300, differenziando di conseguenza pazienti con cognitivo potenzialmente “integro”, da altri con un verosimile danno di tal genere.
Ma al di là delle possibilità di applicazione diagnostica in assoluto, il ricorso ai potenziali evocati cognitivi evento-correlati, può risultare particolarmente utile e suggestivo nel monitoraggio dell’andamento dei trattamenti abilitativi-riabilitativi e farmacologici.
L’andamento nel tempo della P300, infatti, può risultare una spia fedelissima dell’evoluzione del processo morboso così come delle abilità “cognitive” (ossia di elaborazione centrale) del soggetto in esame, offrendoci così la possibilità di disporre di ulteriori parametri di valutazione della terapia, parametri quali-quantitativamente obiettivabili.
Non meno importante ci sembra, allo stato attuale e alla luce di (non) recenti acquisizioni nel campo delle intolleranze alimentari, il discorso diagnostico-terapeutico legato alla ricerca di tali patologie (soprattutto collegate a disbiosi intestinali) ed ai loro verosimili rapporti con diverse affezioni neurologiche centrali, tra cui le psicosi e l’autismo.
Nel 1995 la Società Statunitense di Allergologia ha classificato in modo semplice e chiaro le reazioni ai cibi:
1) Allergie alimentari vere e proprie che si manifestano con una reazione immediata o quasi al cibo ingerito: orticaria (fragole), angioedema (crostacei), ecc.
2) Le pseudo allergie dovute a deficit enzimatici: la mancanza dell’enzima per la digestione delle proteine del latte può provocare vomito e diarrea nel neonato già dopo la prima assunzione di latte. Rientra in questa categoria anche il favismo, la mancanza cioè di un enzima per la digestione dei legumi.
3) Le ipersensibilità, cioè le reazioni ad alcune sostanze chimiche contenute in alcuni alimenti (vino, cioccolata, pesci in scatola, formaggi fermentati) che rilasciano istamina e che possono causare cefalee e vari sintomi.
4) Le reazioni tossiche agli alimenti, cioè avvelenamenti da funghi o cibi avariati, ecc.
5) Le intolleranze alimentari. In questi casi eliminando inizialmente un cibo dall’alimentazione quotidiana e reinserendolo poi gradatamente, si ottiene la remissione del sintomo o del disturbo organico originario.
Si può parlare di allergia alimentare solo quando troviamo nel sangue un eccesso di Immunoglobuline E (IgE) che in presenza della sostanza estranea (allergene), sia essa polline o polvere o alimento, si agganciano ad alcuni tipi di globuli bianchi inducendoli a liberare istamina, che causerà infiammazione, gonfiore dei tessuti, ecc.
Si parla di intolleranza alimentare quando, invece, non vi è produzione di anticorpi IgE, quando le reazioni non sono immediate, ma croniche. I disturbi infatti non sono in diretta relazione con l’assunzione, ma si manifestano anche a distanza di giorni e si possono sviluppare a carico di qualsiasi distretto anatomico.
Diverse sono le cause delle intolleranze alimentari:
1) Carenza di Vitamine/Minerali.
2) Malassorbimento di Magnesio ed altri minerali da parte della parete intestinale a causa di disbiosi. Si tratta cioè di un processo fermentativo a carico dell’intestino che in presenza di un alimento non tollerato inizia a liberare una serie di sostanze (istamina, fenolo, creosolo…) con conseguente ostacolo ad un buon assorbimento dei minerali e delle vitamine che andranno a “nutrire” i vari sistemi e funzioni.
3) Stress.
Dalla casistica di 300 soggetti trattati e dai dati raccolti su più di 100 pazienti autistici, risulta che in una elevata percentuale di casi si è instaurata una disbiosi intestinale già in tenera età.
Si possono quindi collegare in modo logico le alterazioni del sistema neurologico con quelle del sistema intestinale e quindi agire in senso terapeutico ripristinando un corretto funzionamento dell’intestino in tutte le sue funzioni, utilizzando simbionti per la ricolonizzazione intestinale e l’omotossicologia per una disintossicazione profonda e mirata.
L’omotossicologia agisce sull’organismo secondo il principio di isopatia, cioè introducendo in esso diluizioni decimali, più o meno alte, del principio attivo che provoca nell’organismo sano una reazione simile a quella in atto causata dalla malattia. Con il farmaco omeoterapico si cerca quindi di imitare la malattia: esso diventa un controveleno simile a quello antitossinico messo in atto dalla malattia.
Mentre la risposta immunitaria è già in corso, se si somministrano principi attivi simili, ma non identici, si attivano, stimolandoli, ulteriori meccanismi di difesa ancora efficaci e di riserva.
Nel caso di soggetti fortemente intossicati da tossine di origine intestinale, l’utilizzo dell’omotossicologia è fondamentale per una corretta terapia disintossicante, priva di effetti collaterali, e di alta efficacia.
Nel caso specifico dei pazienti con diagnosi di autismo, si utilizzano prodotti omotossicologici presenti sul mercato italiano, che ci consentono il drenaggio del sistema epatico e del sistema linfatico, con conseguente eliminazione delle tossine accumulate nei vari tessuti, in particolare nel tessuto mesenchimale e nella matrice extracellulare.
Viene comunque sempre impostata una ricolonizzazione intestinale attraverso prodotti a base di fermenti lattici, con l’avvertenza di non utilizzare mai un solo ceppo intestinale, ma sempre dei composti plurimi per ottenere una flora batterica completa ed un equilibrio vitale il più vicino possibile alla norma.
Si deve dare poi molta importanza alla rieducazione alimentare. Accertate le eventuali intolleranze alimentari, si imposta, con l’ausilio della famiglia, un programma alimentare personalizzato per ogni singolo caso.
Questo “protocollo” ha dato risultati molto soddisfacenti.
I dati di tutti i pazienti autistici trattati omotossicologicamente, sono stati raccolti mediante schede compilate dai genitori, dai terapisti, dagli insegnanti, e sono stati valutati statisticamente.
La terapia logopedica deve essere, a nostro parere, il più precoce possibile.
Respingiamo fermamente qualsiasi forma di atteggiamento “attendista”, che non ha alcuna ragione di esistere. Troppo spesso ci viene riferito da genitori attenti e solerti, che diverse figure di specialisti hanno suggerito di aspettare alcuni anni (!) l’inizio della logopedia, con frasi tipo “Il bambino non è ancora pronto”, “Deve avere prima un’esperienza di psicomotricità”, “Acquisirà il linguaggio spontaneamente col tempo, altrimenti provvederete verso i cinque anni”… e così via, provocando solo perdite di tempo prezioso e non recuperabile. Del resto, i migliori risultati li abbiamo avuto proprio nei casi in cui abbiamo iniziato precocemente il trattamento logopedico, potendo realizzare al più presto alcune tappe fondamentali di un itinerario coinvolgente funzioni attentive, percettive, cognitive, orali, prassiche… che non conviene assolutamente procrastinare nel tempo. Il riscontro di un maggior numero di risultati terapeutici soddisfacenti, rilevato da quando abbiamo adottato tale criterio di scelta di tempi di intervento, ha confermato in concreto la sua validità.
Non facile compito è sintetizzare le linee guida e gli aspetti pratici del trattamento logopedico nella sindrome autistica, dal momento che, al di là dei princìpi fondamentali della presa in carico terapeutica, si può dire che ogni bambino abbia fatto storia a sé, data la diversità di tempi di inizio del lavoro, di gravità della sintomatologia, di cause della patologia (con conseguenti differenti possibilità di terapie abbinate ed associabili), nonché di collaborazione della famiglia e della scuola (altre componenti senza le quali viene vanificata gran parte degli sforzi del logopedista).
In linea di massima possiamo prima di tutto affermare che il razionale di un intervento logopedico nell’autismo infantile deve prevedere un lavoro che miri contemporaneamente a:
– Stimolare e rinforzare le capacità percettive e attentive, non solo aumentando quantitativamente i tempi di attenzione, ma anche rendendoli qualitativamente più significativi ed utilizzabili ai fini di un costruttivo sfruttamento del contenuto delle percezioni, secondo quei parametri di cui si parla anche in altri capitoli delle nostre discipline (come nelle sordità, nei ritardi comunicativi, nelle sindromi da deficit dell’attenzione…) quali la coordinazione sensomotoria, la separazione figura-sfondo, la costanza della forma…
– Arricchire il più possibile il patrimonio di conoscenze del bambino sfruttando tutti i canali sensoriali senza prediligerne almeno inizialmente alcuni rispetto ad altri.
Solo in momenti successivi a quello iniziale, potrà risultare utile ricorrere in modo preferenziale al canale grafico, data la (non solo da noi) constatata preferenza e maggiore propensione del soggetto autistico verso questo canale comunicativo.
– Favorire tutte le forme espressive, purchè realmente collegate ad intenzioni comunicative significative e referenziali, e non prodotte in modo stereòtipo e fine a se stesso. Agire, anzi, nei confronti di questi tipi di produzioni ripetitive ed ossessive, in modo inibitorio, applicando quei princìpi della “behavior modification” finalizzati ad ottenere l’estinzione di un comportamento indesiderato.
Dare successivamente maggiore spazio all’utilizzo della verbalità, ovviamente in base all’evoluzione delle abilità comunicative del soggetto ed alle effettive possibilità di ottenere forme espressive più sofisticate.
– Attuare un lavoro di rinforzo e stimolazione di tutte le funzioni orali, dalle prassie non fonemiche, alla masticazione, alla deglutizione, all’articolazione, considerato che in molti soggetti autistici è stato possibile constatare un ritardo o un’inadeguatezza di queste funzioni.
– Stimolare e perfezionare anche un altro aspetto della motricità fine, quello manuale, favorendo sia l’utilizzo di utensili (quali ad esempio le posate) e di oggetti di piccole dimensioni (come i pezzi delle costruzioni), sia la prensione e l’uso di matite, penne, pennarelli…
– Avviare, non appena possibile (in presenza, cioè, di quei requisiti attentivi e cognitivi minimi
sufficienti), un programma di prelettura e prescrittura, e quindi di lettura e scrittura, solitamente
destinato a buone possibilità di realizzazione in un’elevata percentuale di autistici.
– Curare sempre, e contestualmente alla realizzazione di tutti i punti del programma terapeutico
finora citati, gli aspetti del versante relazionale-comportamentale, classicamente disturbato,
inadeguato e distorto nel soggetto autistico, e, di conseguenza, causa di gran parte delle
limitazioni prestazionali, al di là di più o meno limitate capacità cognitive.
L’evoluzione paradigmatica di un trattamento psicomotorio dovrebbe svilupparsi attraverso i seguenti punti:
– l’evoluzione del comportamento spontaneo del bambino sulla scena psicomotoria,
– gli scopi progressivi della terapia psicomotoria,
– le strategie comunicative del terapista, che a loro volta influenzano il comportamento successivo del bambino.
Inizialmente ci si trova di fronte ad un comportamento caratterizzato da evitamento dell’ambiente fisico ed umano, da parte del bambino. Scopo dell’intervento psicomotorio in questa fase iniziale, è la liberazione del repertorio comportamentale spontaneo ed un contenimento delle cosiddette “condotte tossiche”. Si inizia con una condivisione a distanza delle azioni del bambino, che si compie di solito in un silenzio verbale che esalta l’influenza della postura, della prossemica e della “scena” della stanza di psicomotricità, sul comportamento stesso del bambino. Ciò produce una liberazione del repertorio adattivo soprattutto in relazione all’utilizzazione del mondo inanimato che, più di quello umano, interessa prevalentemente il bambino autistico.
Momento comportamentale successivo del bambino, è l’avvicinamento all’ambiente fisico, l’esplorazione. In questa fase, l’intervento psicomotorio deve puntare al contenimento spazio-temporale, attraverso la strategia cosiddetta del rifornimento, che consiste nel fornire al bambino ciò di cui egli ha materialmente bisogno (oggetti, spazi d’azione, territori…) mentre si sopprime il “rumore di fondo”, ossia gli oggetti, le azioni inutili, per lui non significative.
Non si cerca di modificare il contenuto delle sue azioni, ma di contenerle nel tempo (i quarantacinque minuti della seduta) e nello spazio (la stanza di psicomotricità).
Contrariamente alla tappa precedente, il rifornimento richiede al terapista una maggiore utilizzazione, benchè ancora discreta, del gesto e dello sguardo nel compiere delle azioni come: raccogliere, dare, distribuire, posare, togliere, impilare, agganciare, annodare…
Ciò genera i primi contatti tra bambino e terapeuta, i quali evolveranno verso una forma interattiva, il rispecchiamento, ossia un’imitazione empatica delle azioni del bambino, mentre vi conferisce uno stile ludico. Spesso questa imitazione è reciproca, nel senso che pure il bambino imita le azioni del terapeuta.
Scopo di questa tappa del lavoro psicomotorio, è l’incoraggiamento al dialogo corporeo.
La fase successiva ha come obiettivo fondamentale l’attivazione della simulazione e del gioco simbolico. Dal rispecchiamento nasce una vera e propria interazione: il terapista tenta prudentemente di modificare la relazione simmetrica stabilitasi tra sé e il bambino, ovvero cerca di abbandonare il comportamento imitativo e inizia a proporre delle situazioni nuove, esprimendosi con una mimica facciale e corporea spesso enfatizzate. Il contenuto delle azioni non funge più da semplice stimolo, ma diventa mezzo di scambio tra i due attori. E’ l’inizio del “fare finta di”, del gioco funzionale e simbolico. L’espressività del terapista implica ugualmente un suo linguaggio verbale inizialmente piuttosto teatrale, in seguito più neutro, e principale vettore della comunicazione durante le ultime due tappe: la direttività e la propositività verbale.
In queste ultime due fasi, la terapia ha come obiettivo quello di aiutare il bambino a mantenere l’attenzione su un qualsiasi compito, e a compierlo senza rinunciare allo sforzo in occasione della minima difficoltà (come è invece spesso il caso nei soggetti autistici), e ciò può essere raggiunto attraverso il rispetto delle regole dei giochi, la risoluzione di compiti semplici dietro richiesta, la sollecitazione dell’attenzione, della concentrazione, favorendo la comprensione dei messaggi verbali attraverso un continuum che ha come obiettivo finale l’attivazione del linguaggio spontaneo.
La propositività verbale realizza, così, una progressiva soppressione del linguaggio non verbale.
Quando il bambino accetterà di “dialogare” con il terapista e di collaborare anche ad alcuni esercizi di natura cognitiva e prattognosica, la terapia psicomotoria in senso stretto del termine potrà dirsi conclusa.
Riteniamo che possa essere fonte di utili informazioni sull’efficacia dei provvedimenti dietetici e disintossicanti, proprio il riscontro delle modifiche prestazionali effettuato sui soggetti già in terapia logopedica e psicomotoria, potendo in tal modo disporre di elementi di confronto “intraindividuali”.
Allo stato attuale siamo in grado di affermare di aver riscontrato le seguenti modifiche comportamentali:
– miglioramento delle capacità attentive,
– miglioramento-aumento del contatto oculare,
– maggiore disponibilità al contatto fisico,
– miglioramento dell’interazione con terapisti, insegnanti e coetanei,
– riduzione delle manifestazioni di ipercinesia e di autoaggressività,
– riduzione o eliminazione degli eccessi di riso, di pianto, di ira,
– miglioramento o normalizzazione dei ritmi sonno-veglia.
I miglioramenti sintomatologici citati sono stati rilevati in tutti i bambini autistici, anche se in misure leggermente differenti da caso a caso. L’eterogeneità della gravità dei quadri clinici di partenza, il diverso stato di avanzamento del programma terapeutico abilitativo, la differenza dei terapisti stessi (non tutti i bambini sono seguiti dallo stesso logopedista e psicomotricista) sono elementi che sconsigliano, per il momento, un’ulteriore differenziazione quantitativa ed in percentuale, dell’entità delle suddette modifiche comportamentali. Ci sembra già sufficiente e confortante averne riscontrato l’ottenimento.
Considerazioni conclusive
E’ soprattutto il conforto dei risultati molto soddisfacenti ottenuti con questo che potremmo definire “metodo integrato”, che ci ha spinto a scrivere e descrivere i tratti salienti del nostro protocollo utilizzato da alcuni anni nella gestione diagnostico-terapeutica dell’autismo infantile.
Gli aspetti principali della nostra metodica operativa, crediamo possano identificarsi nei seguenti punti:
– Impostazione diagnostica e terapeutica di taglio fondamentalmente foniatrico e logopedico, essendo il Foniatra ed il Logopedista, le figure maggiormente collegate e collegabili a patologie della comunicazione; e l’Autismo è un’affezione coinvolgente (e non poco!) la sfera comunicativa di un individuo.
– Riconoscimento, in ambito diagnostico, di una possibile multifattorialità di cause, compresa la componente “intolleranze alimentari”, certamente non unica, ma neppure trascurabile concausa dei danni cerebrali riscontrabili in una non indifferente percentuale di soggetti affetti da sindrome autistica.
– Intervento terapeutico multiplo, e non “monotematico” (come molti fanno, e talvolta con un fanatico attaccamento al “metodo”). Figura di base, e protagonista sin dall’inizio del lavoro abilitativo, la logopedista; ma in stretta collaborazione con: psicomotricista, famiglia, scuola; queste ultime due, intese non come entità astratte, ma attraverso la reale presenza dei genitori (e di eventuali fratelli collaboranti) in terapia e subito dopo di essa, nonché attraverso un periodico collegamento con gli insegnanti della scuola, per operare in sinergia con la logopedista.
– Necessità di verificare, da parte di foniatra (nel corso dei controlli periodici) e logopedista (frequentemente a contatto con i genitori del soggetto autistico), che vengano rispettate le consegne dietetiche (a volte davvero difficili da rispettare) e farmacologiche che, nel nostro caso sono date dall’omotossicologo (ma che altri potrebbero attingere altrove, purchè lo facciano quando è riconosciuta una causa dismetabolica!).
– Focalizzazione dell’interesse preminente di tutto l’iter abilitativo, sull’aspetto “verbalità” nell’ambito della sfera comunicativa; e quindi, lavoro sulle funzioni “orali”, sovente, a nostro parere, trascurate, ritardate, o poco considerate, da parte di promotori di alcuni altri metodi di intervento.
– Continua disponibilità a rivedere e rimettere sempre in discussione ciò che stiamo facendo; e quindi, realizzazione di frequenti riunioni tra noi operatori per riesaminare periodicamente la validità (soprattutto attraverso il riscontro dei risultati) del nostro metodo; con atteggiamento costantemente aperto verso l’informazione, l’aggiornamento e la sperimentazione (premessi i dovuti consensi di parte…), convinti di aver raggiunto non “il metodo ideale”, ma “un metodo attualmente ben funzionante” per curare l’autismo con risultati concretamente soddisfacenti.
Per corrispondenza:
Dott. Massimo Borghese
Via S. Lucia 36. 80132 Napoli
Tel. 081 7647097
e-mail: [email protected]
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